Ogni volta che entro dentro casa mi tolgo le scarpe.
Si avvicina il mio gatto, miagola fortissimo, ancora devo capire se perché è felice o perché incazzato nero causa mancanza di pappa nella ciotola per l’ennesima volta. Tolgo il cappotto, poso la giacca, faccio scivolare gli anelli dalle mie dita e mi siedo. Di solito il divano diventa il regno prediletto per le mie chiappe almeno per un’ora, il silenzio è il paradiso per le mie orecchie, la penombra quello per i miei occhi.
Ho imparato a fermarmi. Soprattutto in questo periodo dell’anno.
La mia assenza, mie care amiche, non è il frutto di troppi panettoni o regali da cambiare in negozi pieni di commesse stanche. Quella stanca questa volta ero io. E ho riposato un po’. Avevo molto da dire, ma forse un sermone di un pastore anglicano sarebbe risultato più divertente.
Perché scrivere per alcune persone risulta dopo un po’ naturale, come fare la pipì di prima mattina, ma a volte si trasforma in uno specchio clamorosamente obiettivo. E io in questo specchio vedevo solo una donna negativa, presa a schiaffi dalla vita. E sinceramente non era proprio quello che mi sarei mai immaginata potessi essere.

Dunque, ricapitoliamo.
Ho evidentemente tutto. Un tetto, la casa, una figlia, amore e amicizia. Allora analizziamo le mie scontentezze, la mia paranoia, le mie ansie; cosa ci porta l’amore per un figlio?
È possibile che un genitore sia più triste o più esposto alle emozioni rispetto a una qualunque altra persona?
È mai possibile che una madre sia così vulnerabile?
Che abbia seimila pensieri e poche soluzioni?
È davvero una nostra convinzione quella all’interno della quale tutto si può riassumere “non potete capì?”.
Dove finisce l’amore per un figlio e riparte quello solo per se stesse?
E non parlo delle due ore mensili dove da more diventiamo bionde, o quando ci pitturiamo le unghie di “softpink”.
Quanto di quello che siamo risponde esattamente a noi, ma noi e basta, senza l’eco del ricordo di un figlio.
Mi sono accorta che ormai ero felice solo per Margherita, o per ciò che ruotava intorno a mia figlia, poteva apparire cosa riguardante me, ma alla fine era costantemente direttamente proporzionale alle mie aspettative con lei, per lei su di lei.
Stessa situazione in senso inverso; senza di lei mi sentivo totalmente vuota.
Il pensiero di lasciarla andare mi occupava il cuore con enormi macigni, mi bloccava, mi ha bloccato.
Ero passata da essere una persona felice e quindi una mamma felice, a una mamma felice e quindi una persona felice.

Eh no, io questo non lo voglio. Perché è un attimo poi passare da una mamma felice a una manager familiare stressata, perché è un attimo fissarsi sulla corretta alimentazione e sul miglior corso d’inglese per il nano, bypassando ciò che il figlio realmente è, ovvero una PERSONA distinta da te, che non potrà essere mai e poi mai la coperta di Linus contro i tuoi fallimenti.
Io amo mia figlia più di qualsiasi altra cosa, ma più cresce e più mi rendo conto che da qui a poco volerà con le proprie ali e io non potrò fare altro che vederla da qui. Ciò che sono ora, una donna, intraprendente ironica e calendariofobica deve essere a prescindere da lei; credo che una persona debba capire quando smetterla di inglobare la propria genitorialità nella sua autentica personalità e alimentare a tratti solo ed esclusivamente quella.
Basta. Siamo fragili, casiniste, amorevoli, ma anche poco pazienti.
Non siamo per niente perfette, non sono per niente paziente, ma attenta quello sì, attenta alla mia Margherita, che da oggi chiamerò “figlia” e non “vita mia”, perché la mia vita è composta anche da lei, ma non è lei.
Oggi ricomincio da me.
Oggi voglio abbracciarmi, baciarmi, toccarmi e darmi pacche forti sulla spalla.
Oggi voglio essere quella che sono perché ne ho superate tante e tante ne passerò e le risupererò grazie unicamente a me medesima.
Siamo donne.
Eccezionali certo.
Ma non per questo siamo indistruttibili.